Risiera di San Sabba: memoria, diritto e dignità civile

06.11.2025

A Trieste, in periferia della città da sempre crocevia di popoli e culture, sorge la Risiera di San Sabba, unico campo di concentramento nazista in Italia dotato di forno crematorio. Oggi è riconosciuto come Monumento Nazionale (D.P.R. 15 aprile 1965 n. 510) e rappresenta una delle ferite più profonde della nostra storia civile e giuridica. Un luogo che impone silenzio, riflessione e coscienza, dove la memoria diventa non soltanto un atto di pietà ma un vero e proprio dovere costituzionale, perché qui si è consumata la più radicale negazione dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'articolo 2 della Costituzione.

L'edificio nacque tra il 1898 e il 1913 come risiera per la pilatura del riso. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, la posizione strategica di Trieste – ponte naturale tra Italia, Germania e Balcani – indusse le SS a requisirlo e a trasformarlo in un Lager di polizia e di transito (Polizeihaftlager). In poco tempo, il magazzino di mattoni rossi divenne un centro di detenzione, tortura e smistamento dei deportati politici e razziali diretti verso i campi di sterminio d'Europa. Sotto la direzione dell'ufficiale Josef Oberhauser, già attivo nel campo di Belzec, la Risiera fu teatro di fucilazioni, impiccagioni e cremazioni, con un forno crematorio collocato nel locale caldaie e distrutto nel 1945 per cancellare le prove dei crimini.

Qui vennero rinchiusi partigiani, antifascisti, militari italiani, ebrei, rom, omosessuali, testimoni di Geova e oppositori politici di ogni provenienza. Le testimonianze parlano di interrogatori brutali, torture e uccisioni sommarie. Si stima che oltre 3.000 persone siano state giustiziate all'interno del complesso, mentre migliaia furono deportate verso Auschwitz, Dachau e Mauthausen. La Risiera di San Sabba è quindi il simbolo più tangibile dell'occupazione nazista nel Nord Italia e della violenza istituzionalizzata, in cui il diritto venne piegato fino a diventare strumento di annientamento.

Dopo la liberazione di Trieste, nel maggio 1945, la Risiera non divenne subito museo. Negli anni del dopoguerra, in pieno clima di Guerra Fredda, il complesso fu riutilizzato come campo profughi per migliaia di persone in fuga dai regimi comunisti dell'Europa orientale, in particolare da Ungheria, Cecoslovacchia e Jugoslavia. Ironia tragica della storia: quelle stesse mura che avevano visto l'orrore del totalitarismo nazista ospitarono, pochi anni dopo, uomini e donne che scappavano da altri totalitarismi, dietro la Cortina di Ferro. Quella fase, poco conosciuta ma significativa, segna la trasformazione di un luogo di morte in luogo di passaggio e speranza, pur nel segno della precarietà e del dolore.

Solo nel 1965, con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 510, la Risiera di San Sabba venne dichiarata Monumento Nazionale. E solo nel 1976 si tenne il processo davanti alla Corte d'Assise di Trieste, che riconobbe i crimini commessi come crimini contro l'umanità. Tuttavia, la giustizia arrivò tardi e in modo parziale: molti dei responsabili erano già fuggiti o morti, e la memoria dovette sostituirsi alla pena. Da quel momento, il diritto si riappropriò della storia, e la Risiera cominciò a parlare anche in nome di chi non aveva potuto ottenere giustizia.

Emblematico è il caso del comandante Josef Oberhauser, già attivo nel campo di sterminio di Belzec e riconosciuto colpevole nel processo triestino. Nonostante la condanna all'ergastolo, egli non fu mai consegnato all'Italia, poiché le autorità tedesche non erano tenute a estradare i propri cittadini in base a un accordo bilaterale italo-tedesco del 1942, stipulato tra il Regno d'Italia e il Terzo Reich, che vietava l'estradizione reciproca dei rispettivi cittadini.

La Germania Federale, erede giuridica di quello Stato, continuò a invocare tale principio, rifiutando l'estradizione e limitandosi a riconoscere la condanna solo sul piano morale, non giuridico. Così, Oberhauser morì libero nel 1979, senza mai aver scontato un giorno di carcere per i delitti compiuti in Italia.

Ricordare San Sabba significa restituire voce non solo agli ebrei e ai partigiani, ma anche a quelle categorie di vittime a lungo dimenticate: gli omosessuali, perseguitati per "degenerazione morale", e i testimoni di Geova, incarcerati perché rifiutavano di giurare fedeltà al regime o di prestare servizio militare. Per decenni le loro storie sono rimaste ai margini della narrazione pubblica, ma oggi il percorso museale e le ricerche storiografiche restituiscono dignità e riconoscimento a ogni singola vita spezzata.

Visitare la Risiera di San Sabba mi ha scosso nel profondo. Dentro quelle mura ho sentito il sangue ribollire, il nervoso salire, lo stomaco chiudersi. Non riesco a concepire come intere popolazioni siano rimaste ferme davanti a simili atrocità: credo che, se il popolo si fosse ribellato, regimi come quello nazista e fascista non avrebbero avuto vita lunga. Non accetto la giustificazione della fame o della paura. Ci sono momenti nella storia in cui tacere significa diventare complici, e questo per me è inaccettabile.

Ho sempre avuto un animo profondamente antifascista, e ogni volta che entro in luoghi come questo sento riaffermarsi in me la convinzione che la libertà non è un dono, ma una responsabilità. La Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, è per me una bussola morale: difenderla significa difendere la dignità umana, sempre e ovunque. Mi ferisce sapere che la Risiera di San Sabba sia stata usata per torturare e uccidere chi lottava per la libertà, ma anche per perseguitare persone solo perché omosessuali o testimoni di Geova. E mi ferisce, ancora oggi, vedere che un popolo che ha conosciuto l'orrore della persecuzione possa infliggerlo a un altro. Nessuno che abbia vissuto un genocidio dovrebbe mai, per nessuna ragione, replicare quella violenza.

Credo che ricordare sia un atto politico e giuridico, non un esercizio di retorica. Significa scegliere ogni giorno da che parte stare, rifiutando la neutralità davanti all'ingiustizia. La Risiera di San Sabba non è solo un museo, ma una lezione di civiltà. Un luogo che mi ha insegnato che il diritto, quando perde l'anima, diventa strumento di annientamento; ma che la memoria, se custodita con coscienza, può restituire umanità al diritto.

Non ci sono giustificazioni nella fame o nella paura, come ricordo a me stessa ogni volta che penso a ciò che ho visto: la dignità non è un lusso, ma un dovere. E ricordare la Risiera significa riaffermare che nessun popolo può dirsi civile se dimentica le proprie vittime, qualunque sia la loro fede, il loro orientamento o la loro appartenenza politica.