Referendum senza quorum e decreti-legge abusati: quando la democrazia si logora nel metodo

15.06.2025

In Italia, sempre più spesso i referendum falliscono perché non si raggiunge il quorum. Ma questo dato non è solo aritmetico: è politico, culturale, perfino costituzionale. A ben vedere, il popolo italiano non ha smesso di interessarsi alla democrazia; ha semmai smesso di credere che gli strumenti a sua disposizione siano efficaci, utili o rispettati. In una parola: si è stancato.

Quorum e disaffezione: il paradosso della democrazia consultiva

L'articolo 75 della Costituzione disciplina il referendum abrogativo, stabilendo che può essere richiesto «quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali». Si tratta di una soglia di attivazione apparentemente alta, ma che, nell'attuale contesto digitale, è sempre più raggiungibile grazie all'uso coordinato di piattaforme online, associazioni e strumenti di promozione civica.

Il vero ostacolo, tuttavia, è il quorum di validità, previsto sempre dal medesimo articolo: «La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto». Una soglia del 50% + 1 degli iscritti alle liste elettorali che, in un'epoca di forte astensionismo, si trasforma spesso in una condanna preventiva all'insuccesso.

Il risultato è paradossale: una minoranza organizzata può far fallire un referendum semplicemente non votando, sfruttando lo strumento democratico come leva per l'immobilismo. Questo genera una perversione del principio partecipativo: lo strumento nato per rafforzare il potere decisionale dei cittadini rischia di ridursi a un simulacro, delegittimato prima ancora di essere esercitato.

Inoltre, la crescente facilità nel raccogliere le firme – a fronte della soglia ancora ferma a 500.000 elettori – ha portato a un moltiplicarsi di quesiti, spesso tecnici, frammentari o scarsamente comprensibili. Ciò alimenta la percezione che il referendum sia uno strumento manipolabile, più utile alla propaganda che al confronto democratico.

Due possibili soluzioni, entrambe costituzionalmente ammissibili, emergono dal dibattito:

  1. Riformare il quorum, abbassandolo al 30% o parametrandolo alla partecipazione delle ultime elezioni politiche, sul modello di alcune leggi regionali e ordinamenti stranieri.
  2. Reintrodurre filtri di qualità sui quesiti, favorendo quelli chiari, coerenti, accessibili e comprensibili, per evitare il rischio di strumentalizzazione tecnica o populista.

Una terza via potrebbe essere l'introduzione di nuovi strumenti di democrazia deliberativa, come i referendum propositivi, le assemblee civiche o i bilanci partecipativi con valore consultivo o orientativo.

Continuare a ignorare questo stallo significa accettare una democrazia inerte: un popolo formalmente sovrano ma materialmente disilluso, che smette di esercitare il proprio potere non per disinteresse, ma per sfiducia nell'efficacia degli strumenti offerti.

Eppure, come ci ricorda la Costituzione, «La sovranità appartiene al popolo» (art. 1). Ed è dovere delle istituzioni fare in modo che questa appartenenza non sia simbolica, ma reale, praticabile, effettiva.

Una democrazia stanca, compressa da un eccesso di decretazione d'urgenza

Contemporaneamente, si è diffusa una prassi degenerata: il ricorso sistematico ai decreti-legge, disciplinati dall'art. 77 della Costituzione. Si tratta di atti aventi forza di legge emanati dal Governo "in casi straordinari di necessità e urgenza", con efficacia immediata ma destinati a decadenza se non convertiti dal Parlamento entro 60 giorni.

Quello che era pensato come uno strumento eccezionale, oggi è diventato prassi ordinaria. Il Governo si sostituisce di fatto al Parlamento nella funzione legislativa, invertendo la logica dei poteri stabilita dalla Costituzione.

Eppure, l'articolo 70 è chiaro: "La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere". Il Parlamento dovrebbe essere il cuore pulsante del dibattito democratico, il luogo in cui si discutono le leggi, si confrontano le opinioni, si rappresentano i cittadini. Ma da anni, l'iniziativa legislativa parlamentare è marginale, sovrastata da una produzione normativa spesso tecnica, emergenziale, e scarsamente partecipata.

Quando la forma è sostanza: il metodo democratico è in crisi

Tutto questo ci dice una cosa molto semplice ma potente: la crisi della democrazia italiana è anche una crisi del metodo, non solo dei contenuti. Quando si svuotano gli strumenti di partecipazione popolare (come il referendum) e si aggirano le sedi della rappresentanza (come il Parlamento), la democrazia perde forza, legittimità e credibilità.

Non è sufficiente dire che viviamo in una Repubblica parlamentare: bisogna chiederci quanto effettivamente il Parlamento legifera, quanto le persone si sentono rappresentate, quanto la voce popolare incide sulle scelte politiche.

Uno sguardo oltreconfine: il referendum nel diritto comparato

Il dibattito sull'efficacia degli strumenti referendari in Italia non può prescindere da una comparazione con altri ordinamenti. Analizzare come funzionano i referendum in Paesi che hanno una lunga tradizione di democrazia partecipativa può aiutarci a comprendere limiti e potenzialità del nostro modello.

Ecco una scheda comparativa sintetica, che mette a confronto l'Italia con la Svizzera, la Spagna e la California:


La comparazione evidenzia alcuni punti chiave:

  • Solo in Italia esiste un quorum così elevato, che consente alla parte contraria di bloccare la consultazione semplicemente astenendosi.

  • In Svizzera, la democrazia diretta è parte integrante del tessuto politico e culturale. I cittadini sono abituati a esprimersi più volte all'anno, senza che ciò generi confusione o disinteresse.

  • La Spagna adotta un modello estremamente limitato e simbolico, riservato a momenti di alto valore politico, ma privi di effetti normativi.
  • La California rappresenta il modello più radicale, dove le "Proposition" hanno forza vincolante e possono persino incidere su questioni costituzionali e fiscali.

Il confronto rende evidente quanto l'Italia sconti un certo immobilismo istituzionale, dove l'innovazione democratica è frenata da una visione difensiva della partecipazione popolare. Eppure, riformare non significa tradire la Costituzione: significa renderla più aderente alla realtà e alle esigenze del presente.

Rianimare la Costituzione: partecipazione, equilibrio, responsabilità

La verità è che la Costituzione italiana non ha bisogno di essere riscritta. Ha bisogno di essere rispettata, attuata, vissuta.

Le sue parole non sono formule astratte: sono principi concreti, che parlano di dignità, uguaglianza, libertà e giustizia. Ma senza una cultura istituzionale che le renda vive, rischiano di restare lettera morta.

Rianimare la Costituzione, oggi, significa anzitutto restituire senso agli strumenti di partecipazione. I referendum non possono essere consultazioni inutili, ostaggio di strategie silenziose. Devono tornare a essere spazi veri di confronto, di scelta, di responsabilità collettiva.

Significa anche rilanciare il ruolo del Parlamento, che dovrebbe essere il cuore del dibattito democratico. Legiferare non è solo un atto tecnico: è un atto politico nel senso più nobile del termine. Significa ascoltare, mediare, rappresentare. E invece, troppo spesso, l'aula parlamentare viene bypassata, marginalizzata, svuotata.

E poi c'è il ruolo del Governo, che va ricondotto alla sua natura costituzionale: non un legislatore parallelo, ma un organo che esegue, coordina, attua. I decreti-legge devono tornare a essere eccezione, non regola. Perché la vera urgenza non è più quella delle norme, ma quella della democrazia sostanziale.

Infine, serve un cambio di passo culturale. Partecipare non è solo un diritto: è un dovere verso sé stessi e verso gli altri. La Repubblica, dice l'articolo 2, riconosce i diritti inviolabili della persona, ma richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. E allora non possiamo chiamarci fuori. Non possiamo arrenderci all'idea che tutto sia inutile, che niente cambi, che tanto decidono altri.

La Costituzione ci chiama ogni giorno, anche quando non ce ne accorgiamo. E risponderle, con consapevolezza ed impegno, è l'unico modo per non lasciarla morire sotto il peso della rassegnazione.