Palestina e diritto negato: l’autodeterminazione tradita

Il diritto del popolo palestinese ad autodeterminarsi esiste nel diritto internazionale, ma resta privo di attuazione: una riflessione giuridica tra norme, poteri e silenzi.
Il diritto all'autodeterminazione dei popoli è uno dei cardini del diritto internazionale contemporaneo. È consacrato all'articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite e ribadito nei due Patti internazionali del 1966 sui diritti civili e politici (art. 1) e sui diritti economici, sociali e culturali (art. 1). Tale principio non è una concessione, ma un diritto fondamentale: riconosce a ogni popolo la facoltà di determinare liberamente il proprio status politico, economico e sociale.
Eppure, nel caso palestinese, questo diritto resta incompiuto. Da oltre settant'anni, il popolo palestinese vive in una condizione di sospensione giuridica e politica, privo della piena sovranità territoriale e costretto a esistere in un sistema di frammentazione, occupazione e controllo che ne limita di fatto ogni espressione di autodeterminazione.
Già nel 1947, con la Risoluzione 181 dell'Assemblea Generale dell'ONU, la comunità internazionale sanciva la partizione della Palestina storica in due Stati: uno ebraico e uno arabo. Tuttavia, mentre lo Stato d'Israele veniva rapidamente riconosciuto e consolidato, lo Stato palestinese non vide mai la luce.
Negli anni successivi, le Risoluzioni 242 (1967) e 338 (1973) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ribadirono il principio dell'"inammissibilità dell'acquisizione di territori con la forza" e chiesero il ritiro israeliano dai territori occupati. Ma quelle risoluzioni, pur vincolanti, non furono mai pienamente attuate.
Oggi la Palestina è riconosciuta come Stato osservatore non membro presso le Nazioni Unite (Risoluzione 67/19 del 2012), ma resta priva del pieno status di Stato sovrano. Le istituzioni palestinesi operano in un quadro di occupazione militare, sotto restrizioni economiche e con un territorio frammentato in aree amministrate diversamente (A, B, C) secondo gli Accordi di Oslo del 1993-1995. L'autodeterminazione, in queste condizioni, è più teorica che reale.
Il principio di autodeterminazione nasce come risposta al colonialismo e si consolida dopo la Seconda guerra mondiale. La Risoluzione 1514 (XV) del 1960 — la "Dichiarazione sull'indipendenza dei paesi e dei popoli coloniali" — afferma che "la soggezione dei popoli a dominazione straniera costituisce una negazione dei diritti fondamentali dell'uomo".
Sul piano giuridico, la Corte internazionale di giustizia (CIJ) ha più volte riaffermato che il diritto all'autodeterminazione è un principio di diritto internazionale consuetudinario e un diritto erga omnes, cioè opponibile a tutti gli Stati (come ricordato nel parere sul Sahara Occidentale del 1975 e nel parere sul Muro in Palestina del 2004).
Tuttavia, sebbene l'autodeterminazione sia un diritto riconosciuto, la sua effettiva attuazione dipende dalla volontà politica degli Stati e dagli equilibri di potere del Consiglio di Sicurezza. È qui che il diritto si piega alla realpolitik.
Nel caso palestinese, la comunità internazionale si è dimostrata incapace — o riluttante — a garantire un'applicazione effettiva del principio. Gli strumenti giuridici esistono: il diritto internazionale umanitario, la IV Convenzione di Ginevra del 1949, il diritto dei popoli sotto occupazione. Ma il sistema delle Nazioni Unite soffre di un difetto strutturale: la dipendenza dalle maggioranze politiche e dal potere di veto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Così, mentre la CIJ ha definito "illegale" la costruzione del muro di separazione e l'espansione degli insediamenti israeliani, la mancanza di meccanismi coercitivi rende le decisioni della Corte meri ammonimenti morali. La Palestina resta intrappolata in una spirale di condanne non seguite da sanzioni.
L'autodeterminazione, dunque, non è negata dalle norme, ma dall'assenza di volontà di applicarle. È un diritto violato nel silenzio del diritto stesso.
Sul piano giuridico, la sovranità palestinese è oggi frammentata in più dimensioni:
- territoriale, poiché la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est non costituiscono un'unità geografica né politica;
- istituzionale, per via della divisione tra Autorità Nazionale Palestinese e Hamas;
- funzionale, data la dipendenza economica, idrica ed energetica da Israele.
Il risultato è una "sovranità condizionata", che priva il popolo palestinese della possibilità di esercitare pienamente i propri diritti collettivi e di autogovernarsi secondo le proprie leggi.
A ciò si aggiungono le continue violazioni del diritto internazionale umanitario — dai blocchi economici alle demolizioni forzate, fino agli attacchi ai civili — che minano le basi stesse di una convivenza fondata sul diritto.
L'autodeterminazione come giustizia differita
Il caso palestinese rappresenta una frattura morale e giuridica nel sistema internazionale: mostra la distanza tra i principi proclamati e la loro attuazione effettiva. Quando un diritto universale viene riconosciuto ma non tutelato, la comunità internazionale perde credibilità.
Il diritto all'autodeterminazione non può essere subordinato alla geopolitica né alla paura di destabilizzare equilibri regionali. È un diritto che impone doveri di cooperazione, sanciti anche dall'articolo 1, paragrafo 3, della Carta ONU. Non è un tema "bilaterale" tra Israele e Palestina, ma una questione di ordine internazionale e di dignità umana.
Fintanto che la legalità rimarrà selettiva, e i diritti dei popoli dipenderanno dalla loro utilità geopolitica, l'autodeterminazione resterà un diritto negato e la pace una promessa sospesa.
L'autodeterminazione non è solo una formula giuridica, ma un principio che incarna la libertà dei popoli di esistere secondo la propria identità e volontà. Negarla significa minare il fondamento stesso del diritto internazionale.
Il popolo palestinese, oggi, non chiede un privilegio ma il riconoscimento di una verità elementare: il diritto a decidere del proprio destino.
E se il diritto internazionale non riesce a garantirlo, allora è la comunità internazionale — e ciascuno di noi come cittadino del mondo — a dover rispondere a una domanda ineludibile:
che valore ha il diritto, se tace davanti all'ingiustizia?
