I nuovi schiavi dell’era moderna: libertà formale, sfruttamento reale

10.10.2025

La schiavitù non è un residuo del passato, ma una realtà che assume oggi forme nuove, subdole, difficili da riconoscere e ancor più da combattere. È una schiavitù che indossa abiti civili, che si nasconde dietro le regole del mercato, le tecnologie della connessione, la catena invisibile della globalizzazione. Viviamo in un mondo dove milioni di persone lavorano, si spostano e sopravvivono sotto vincoli economici e sociali che, pur non chiamandosi più "catene", ne riproducono gli effetti.

Sul piano normativo, la condanna della schiavitù è tra i pilastri del diritto internazionale. La Convenzione di Ginevra del 1926 ne ha sancito l'abolizione formale, mentre la Convenzione supplementare del 1956 e il Protocollo di Palermo del 2000 hanno ampliato la definizione, includendo ogni forma di tratta e di sfruttamento forzato.

Le Convenzioni n. 29 e 105 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), insieme ai Principi Guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani (UNGPs, 2011), hanno costruito un sistema di responsabilità globale, che obbliga gli Stati e le imprese a vigilare sulle proprie filiere produttive. Tuttavia, la distanza tra diritto formale e realtà economica resta abissale: secondo le stime ONU, oltre 50 milioni di persone vivono oggi in condizioni assimilabili alla schiavitù moderna.

La geografia della nuova schiavitù si sovrappone perfettamente a quella dell'economia mondiale.

Dalle miniere di coltan in Congo, dove i bambini scavano per estrarre i minerali necessari ai nostri smartphone, ai campi agricoli del Sud Italia, dove migliaia di braccianti stranieri lavorano senza contratto sotto il controllo del caporalato, fino ai laboratori tessili dell'Asia meridionale, in cui donne e adolescenti cuciono abiti a ritmi disumani: la logica è la stessa.

Il profitto prevale sulla dignità, il bisogno viene trasformato in strumento di coercizione, e la libertà — pur formalmente garantita — diventa condizionata, negoziabile, subordinata alle esigenze del mercato.

In questo contesto, anche il diritto del lavoro europeo si trova di fronte a una sfida epocale: quella di tutelare il lavoratore non solo nel luogo di produzione, ma lungo tutta la catena del valore. La Direttiva UE 2024/1760 sulla due diligence delle imprese rappresenta un passo decisivo: obbliga le aziende a individuare, prevenire e rimediare ai rischi di violazioni dei diritti umani nelle proprie attività e in quelle dei fornitori. È un'evoluzione del concetto di responsabilità d'impresa, che finalmente riconosce che l'etica non può essere esternalizzata.

Ma la schiavitù del XXI secolo non è solo economica: è anche digitale.

Il tempo, l'attenzione e i dati personali sono diventati la nuova moneta del potere. Il cosiddetto capitalismo della sorveglianza, descritto da Shoshana Zuboff, ha creato un'economia fondata sull'estrazione del comportamento umano, dove l'individuo non è più soltanto consumatore, ma prodotto.

Gli algoritmi che regolano la nostra permanenza sui social network o la visibilità delle nostre opinioni sono progettati per generare dipendenza, per modellare il pensiero collettivo e orientare le scelte politiche e di consumo. È una forma di sfruttamento silenzioso, che non costringe il corpo ma colonizza la mente

Anche qui il diritto è chiamato a reagire.

La Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, all'art. 8, riconosce la tutela dei dati personali come diritto autonomo; il Regolamento UE 2016/679 (GDPR) impone limiti all'uso delle informazioni individuali; eppure la concentrazione di potere nelle mani di poche piattaforme globali riduce di fatto la libertà digitale a una finzione contrattuale. La scelta di "accettare i cookie" o di "consentire il tracciamento" è spesso un consenso viziato, privo di reale alternativa.

Nel mondo contemporaneo, la schiavitù non si manifesta più come proprietà di un individuo da parte di un altro, ma come perdita progressiva di autonomia.

Il lavoratore precario, il migrante invisibile, il consumatore inconsapevole e l'utente digitale sono figure diverse dello stesso paradigma: la libertà condizionata dal bisogno, la partecipazione subordinata all'utilità economica.

In questa prospettiva, anche la Costituzione italiana offre chiavi di lettura preziose: l'art. 36 tutela il diritto al lavoro "in condizioni di libertà e dignità"; l'art. 41 subordina l'iniziativa economica privata "all'utilità sociale"; e l'art. 3 impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l'uguaglianza sostanziale dei cittadini.

Sono principi che chiedono di essere reinterpretati alla luce delle nuove forme di dominio invisibile.

Combattere la schiavitù moderna significa assumersi una responsabilità condivisa.

I governi devono rafforzare i meccanismi di controllo sulle filiere produttive; le imprese devono abbandonare la logica del profitto cieco per adottare modelli di sviluppo sostenibile e trasparente; i cittadini, infine, devono imparare a esercitare il proprio potere di scelta.

Ogni acquisto, ogni clic, ogni abbonamento digitale rappresenta un atto politico: un voto silenzioso sul tipo di mondo che vogliamo sostenere.

Viviamo in una società che celebra la libertà come valore assoluto, ma che spesso la svuota di significato.

Siamo liberi di consumare, di connetterci, di esprimerci, ma questa libertà si muove entro confini decisi da poteri economici che restano opachi e inaccessibili.

La vera emancipazione passa allora per un nuovo concetto di libertà: non quella formale, individuale, ma quella relazionale e collettiva, fondata sulla consapevolezza e sulla giustizia sociale.

Solo riconoscendo i "nuovi schiavi" — e il sistema che li genera — potremo dire di aver davvero superato la schiavitù.