Decreto Sicurezza 2025: serve davvero più repressione penale?

05.06.2025

Una riflessione critica sul D.L. n. 48/2025 convertito in L. n. 73/2025: 14 nuovi reati, 9 aggravanti e molte domande aperte su legalità, proporzionalità e funzione dell'avvocatura.

"Sicurezza a senso unico?" – Una riflessione critica sul D.L. n. 48/2025 convertito con L. n. 73/2025

Il 4 giugno 2025 il Senato della Repubblica ha approvato in via definitiva il disegno di legge n. 1509, che ha convertito in legge il decreto-legge n. 48/2025, noto come "decreto sicurezza". Il provvedimento, già approvato dalla Camera il 29 maggio, introduce numerose modifiche in materia di sicurezza pubblica, ordine e disciplina penitenziaria, contrasto all'usura e tutela del personale in servizio.

Il 4 giugno 2025 il Senato della Repubblica ha approvato in via definitiva il disegno di legge n. 1509, che ha convertito in legge il decreto-legge n. 48/2025, noto come "decreto sicurezza". Il provvedimento, già approvato dalla Camera il 29 maggio, introduce numerose modifiche in materia di sicurezza pubblica, ordine e disciplina penitenziaria, contrasto all'usura e tutela del personale in servizio.

Pur muovendosi formalmente in un contesto emergenziale, la nuova legge si inserisce in una tendenza più profonda: una trasformazione del diritto penale da strumento di extrema ratio a strumento di gestione ordinaria del dissenso, del disagio e della marginalità. È su questo piano che la presente riflessione si concentra, nel rispetto del ruolo costituzionale e deontologico dell'avvocatura, che impone di coniugare legalità e giustizia.

1. Il perimetro del decreto

Il decreto sicurezza abbraccia quattro grandi ambiti:

  • rafforzamento delle pene per reati contro pubblici ufficiali;
  • introduzione di nuovi reati e aggravanti;
  • modifiche all'ordinamento penitenziario, in chiave restrittiva;
  • disposizioni in materia di sicurezza urbana e contrasto all'occupazione abusiva di immobili.

La ratio dichiarata è quella di "assicurare maggiore sicurezza e decoro", "tutelare le Forze dell'Ordine" e "prevenire comportamenti pericolosi per la collettività". Una finalità legittima, ma che richiede – proprio per questo – strumenti proporzionati e conformi ai principi costituzionali.

2. Una sicurezza che restringe le garanzie

Il provvedimento rafforza in modo sensibile le pene per resistenza, violenza e lesioni a pubblico ufficiale, estendendo le circostanze aggravanti e rendendo più frequente il ricorso alla custodia cautelare.

Una simile scelta, tuttavia, rischia di compromettere l'equilibrio tra autorità e libertà, introducendo un messaggio giuridico-politico pericoloso: l'idea che ogni conflitto con l'autorità costituisca automaticamente una minaccia da reprimere con la forza. Il diritto penale, invece, richiede analisi contestuali e proporzionate, fondate sul principio della personalità della responsabilità e della necessità della sanzione (artt. 27 e 13 Cost.).

3. Misure penitenziarie e logica carcerocentrica

Il decreto estende l'elenco dei reati ostativi all'accesso a benefici penitenziari, anche in assenza di condanne definitive, e aggrava le condizioni di detenzione per chi partecipa a rivolte nei centri di permanenza per il rimpatrio (CPR).

Tali disposizioni appaiono in contrasto con l'art. 27, comma 3, della Costituzione, che impone la funzione rieducativa della pena. L'automatismo tra gravità del reato e preclusione dei benefici contrasta inoltre con la giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, che impone valutazioni individualizzate e dinamiche.

4. Libertà civili e repressione del dissenso

Particolarmente problematiche sono le disposizioni che colpiscono le manifestazioni pubbliche: il blocco stradale, anche simbolico, diventa reato; viene introdotta la punibilità della "resistenza passiva"; aumentano le sanzioni per danneggiamenti e atti contro opere pubbliche, se compiuti durante proteste.

Si tratta di misure che, sotto una patina di ordine, sembrano colpire la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e il diritto di riunione (art. 17 Cost.), sostituendo al confronto democratico una risposta penale generalizzata.

5. 14 nuovi reati e 9 aggravanti: inflazione penale e rischio di abuso

Uno degli aspetti più discussi del decreto è l'introduzione di 14 nuove fattispecie penali e 9 nuove aggravanti. L'effetto è un'espansione dell'area del penalmente rilevante che incide su condotte spesso marginali o di dubbia offensività concreta.

Tra i nuovi reati:

  • l'occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui, con possibilità di rilascio immediato da parte della PG senza convalida del giudice;
  • la resistenza passiva e il blocco stradale, puniti anche in assenza di violenza;
  • la rivolta nei CPR, sanzionata fino a 18 anni di reclusione in caso di eventi lesivi;
  • la detenzione o diffusione di materiale legato ad attività terroristiche;
  • la truffa agli anziani e l'accattonaggio con minori;
  • il divieto di vendita di cannabis light, nonostante le valutazioni scientifiche sull'assenza di effetti stupefacenti.

Le aggravanti colpiscono soprattutto:

  • reati commessi nei pressi di stazioni o durante manifestazioni;
  • lesioni o minacce volte a impedire opere pubbliche;
  • il numero dei partecipanti a blocchi o proteste;
  • la vulnerabilità della vittima, come nel caso degli anziani.

Il diritto penale, così usato, diventa arma di dissuasione preventiva più che strumento di giustizia sostanziale.

6. Il ruolo dell'avvocatura: tra critica e responsabilità

L'avvocatura, nel rispetto degli articoli 3, 4 e 9 del Codice Deontologico Forense, ha il dovere di sollevare pubblicamente dubbi di legittimità, di denunciare gli eccessi repressivi e di tutelare le garanzie costituzionali anche contro derive normative.

Criticare non è delegittimare. Significa assumere una posizione di vigilanza democratica, tanto più necessaria quando la funzione difensiva rischia di essere compressa, e i diritti delle persone più fragili o marginalizzate appaiono sacrificabili sull'altare dell'efficienza e della visibilità politica.

Conclusione: sicurezza e giustizia non possono camminare separate

La sicurezza è un diritto fondamentale, ma non può fondarsi sulla paura o sul restringimento sistematico delle libertà. La Costituzione richiede un equilibrio tra ordine pubblico e dignità umana, tra esigenze collettive e diritti inviolabili.

Il decreto sicurezza sembra invece inscriversi in una logica di penalizzazione crescente del conflitto sociale, del disagio urbano e della povertà. A fronte di ciò, è doveroso ricordare – da giuristi – che le leggi esistono già: il codice penale dispone di un apparato sanzionatorio ampio e stratificato. Non serve creare nuove fattispecie di reato in assenza di una reale necessità sistemica.

Ciò che manca non è l'incriminazione, ma l'effettiva certezza della pena, il corretto funzionamento del processo e l'attuazione dei principi costituzionali. Una risposta legislativa fondata sulla moltiplicazione delle norme, anziché sull'efficacia delle esistenti, rischia di generare disorientamento e ingiustizia selettiva.

L'avvocatura, in questo quadro, non può restare indifferente: la sua funzione è quella di presidiare la legalità, ma anche di porre domande scomode. Perché il diritto, senza giustizia, è solo forza organizzata.