Diritti umani in Afghanistan: persecuzione di genere, collasso dello Stato di diritto e responsabilità internazionale

17.12.2025

L'Afghanistan non vive semplicemente una stagione di instabilità: vive una trasformazione strutturale dell'ordinamento in senso anti-garantista, nella quale il potere politico, religioso e coercitivo si sovrappone senza contrappesi e senza accountability. Dopo l'agosto 2021, il quadro non è assimilabile a "singole violazioni" dei diritti umani, bensì a un modello di governo che produce violazioni per design: la restrizione delle libertà non è un effetto collaterale, è la regola. I diritti umani, così, non sono più parametro dell'azione pubblica, ma oggetto di deroga permanente, in un contesto in cui la legalità viene invocata come retorica identitaria e non come sistema di limiti al potere.

Dal punto di vista giuridico, è essenziale chiarire che il mutamento del regime politico non comporta la cessazione degli obblighi internazionali. L'Afghanistan resta vincolato ai principali trattati in materia di diritti umani, tra cui il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), che tutela libertà fondamentali quali la libertà personale, il giusto processo, la libertà di espressione e il divieto di tortura; il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR), che garantisce diritti essenziali come il diritto alla salute, all'istruzione, al lavoro e a un adeguato tenore di vita; la Convenzione sui diritti del fanciullo (CRC), che impone agli Stati la protezione rafforzata dei minori e il rispetto del principio del superiore interesse del bambino; la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CAT), che sancisce un divieto assoluto e inderogabile di tortura in ogni circostanza; e la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW), pilastro del diritto internazionale antidiscriminatorio, che obbliga gli Stati a garantire parità sostanziale tra uomini e donne nella vita civile, politica, economica e sociale.

Questi strumenti producono obblighi continui e inderogabili, che non possono essere sospesi unilateralmente né elusi invocando tradizioni culturali o mutamenti di potere politico. Il principio di buona fede nell'adempimento dei trattati impone che i diritti riconosciuti siano rispettati indipendentemente dalla forma di governo.

La compressione dei diritti delle donne non è confinata al lavoro o all'istruzione: investe la capacità giuridica di esistere nello spazio pubblico. Le restrizioni al movimento, l'obbligo di accompagnamento maschile, i divieti di accesso a luoghi pubblici e le esclusioni dall'impiego (anche in settori essenziali) determinano un effetto giuridico concreto: la donna viene collocata in una posizione di minorità imposta, non per tutela, ma per segregazione. Non è un arretramento "graduale": è una strategia coerente, che frammenta la libertà in micro-divieti fino a rendere impossibile l'autonomia personale. Nella prospettiva dei diritti umani, la discriminazione non si misura solo sul singolo atto, ma sul risultato: quando il sistema produce impossibilità di accesso a istruzione, lavoro, mobilità e vita sociale, il diritto non è limitato, è annullato. È questo che alimenta la qualificazione, sempre più ricorrente, di un regime di separazione e subordinazione strutturale.

Il diritto all'istruzione non è un diritto "tra gli altri": è la condizione che rende effettivi gli altri. Privare le ragazze della scuola secondaria e dell'università significa costruire un futuro di dipendenza economica, vulnerabilità alla violenza, esclusione dal lavoro e marginalità politica. È la negazione del progetto di vita, oltre che della dignità. L'UNESCO ha documentato la natura sistematica del blocco educativo e le restrizioni strutturali alla frequenza e all'insegnamento, con un impatto diretto sullo sviluppo sociale e sulla parità. Sul piano normativo, la violazione è frontale rispetto alla Convenzione sui diritti del fanciullo (art. 28) e rispetto alla CEDAW, che impone agli Stati di eliminare discriminazioni nell'accesso all'istruzione. Qui non si tratta di "politiche scolastiche": si tratta di un meccanismo di esclusione che produce, a catena, povertà e invisibilità.

In Afghanistan i minori non sono solo "vittime collaterali": sono bersagli passivi di un contesto che alimenta matrimoni precoci, abbandono scolastico, lavoro minorile e sfruttamento. Il punto giuridico più duro è che lo Stato (o chi esercita di fatto il potere statale) non garantisce il "best interest of the child", ma lo sacrifica a un modello sociale che normalizza l'asimmetria e la dipendenza. Quando l'istruzione è negata, quando la protezione sociale è assente, quando le famiglie sono schiacciate da povertà e insicurezza, il minore diventa "merce" di sopravvivenza. E il diritto internazionale, qui, non offre alibi: la Convenzione sui diritti del fanciullo (CRC), ossia il trattato delle Nazioni Unite che impone agli Stati di garantire una protezione rafforzata a tutte le persone di età inferiore ai diciotto anni. La CRC stabilisce che ogni decisione pubblica debba essere orientata al superiore interesse del minore, vieta discriminazioni fondate su sesso, origine o condizione familiare e riconosce diritti fondamentali quali l'accesso all'istruzione, alla salute, alla protezione da violenze, sfruttamento e pratiche dannose, nonché il diritto allo sviluppo pieno della personalità. Questi obblighi non hanno natura programmatica, ma sono giuridicamente vincolanti e non possono essere sospesi o elusi invocando tradizioni culturali, emergenze interne o mutamenti di potere politico.

La libertà di espressione (art. 19 ICCPR) non è solo libertà di parola: è la capacità della società di controllare il potere. In Afghanistan, la repressione del dissenso e la compressione dei media indipendenti producono un doppio danno: da un lato colpiscono giornalisti, attivisti, avvocati e difensori dei diritti umani; dall'altro isolano la popolazione dall'informazione, impedendo perfino di nominare le violazioni. UNAMA, nei suoi aggiornamenti periodici, descrive un quadro di intimidazioni e limitazioni che incide direttamente su libertà civili e sicurezza personale. In un sistema così, la paura diventa norma sociale e la libertà si trasforma in rischio penale o para-penale.

Uno dei tratti più incompatibili con un ordinamento rispettoso dei diritti è la dissoluzione del giusto processo: presunzione di innocenza, diritto alla difesa, giudice indipendente, proporzionalità della pena, divieto di pene crudeli e degradanti. In assenza di garanzie, la giustizia diventa strumento politico e la pena diventa messaggio: non mira a rieducare né a prevenire, mira a intimidire e disciplinare. Il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti è assoluto (art. 7 ICCPR; CAT): non ammette eccezioni "di ordine pubblico", né giustificazioni religiose o culturali. È un limite invalicabile: superarlo significa negare l'essenza stessa del diritto come presidio di umanità.

Negli ultimi due anni è emerso un dato che cambia la prospettiva: la questione afghana non è più letta soltanto come "crisi dei diritti umani", ma anche come possibile scenario di responsabilità penale internazionale. Il Procuratore della Corte penale internazionale ha chiesto mandati di arresto per due leader talebani per crimini contro l'umanità, con particolare riferimento alla persecuzione su base di genere e politica; e nel 2025 la dinamica ha avuto ulteriori sviluppi pubblici, con reazioni ufficiali e analisi giuridiche che sottolineano la portata storica di tale inquadramento. Questo è cruciale: significa riconoscere che la sistematicità della discriminazione può oltrepassare la soglia del "solo illecito internazionale" e diventare oggetto di accertamento penale internazionale.

Il discorso sui diritti umani in Afghanistan sarebbe incompleto se si riducesse alle libertà civili. La fame, il collasso sanitario, la povertà estrema e l'impossibilità di accesso a servizi essenziali incidono su diritti protetti dall'ICESCR (diritto a un adeguato tenore di vita, art. 11; diritto alla salute, art. 12). Qui il punto è delicatissimo: la comunità internazionale deve evitare che strumenti di pressione politica producano effetti sproporzionati sui civili. Le misure economiche e finanziarie, anche quando motivate da sicurezza e antiterrorismo, devono confrontarsi con il principio di non aggravare la vulnerabilità della popolazione, specialmente di donne e minori. In altre parole: la pressione sul regime non può trasformarsi in abbandono della società.

In un contesto dove l'accesso alla giustizia interna è compromesso, la funzione di monitoraggio internazionale assume valore quasi "costituzionale": documentare significa impedire la cancellazione. UNAMA, con aggiornamenti periodici, costruisce un patrimonio di informazioni che non è solo cronaca: è materiale probatorio e base per future responsabilità, anche davanti a meccanismi internazionali. La verità documentata è una forma di protezione: non salva immediatamente, ma rende più difficile l'impunità definitiva.

La risposta internazionale spesso si è rifugiata in una formula: "non riconoscere il regime". Ma la non-rappresentanza diplomatica non tutela automaticamente i diritti. La vera domanda, giuridicamente esigente, è: quali strumenti sono efficaci per proteggere le persone senza legittimare le violazioni? Corridoi umanitari, protezione dei difensori dei diritti, visti e programmi di evacuazione, sostegno a istruzione e sanità attraverso canali indipendenti, finanziamenti condizionati e monitorati: sono scelte politiche, sì, ma hanno un'anima giuridica, perché mirano a rendere effettivi obblighi internazionali di protezione.

L'Afghanistan ci pone davanti a una verità scomoda: quando un sistema politico decide che metà della popolazione può essere esclusa dalla vita civile, la discussione non è culturale, è giuridica. La dignità non è negoziabile, e l'universalità dei diritti non è una dichiarazione poetica: è una promessa di limite al potere. Se la comunità internazionale accetta che l'Afghanistan diventi l'eccezione permanente, allora indebolisce l'intero edificio del diritto internazionale dei diritti umani. E quando il diritto arretra, non arretra "lontano": arretra ovunque, perché l'impunità è contagiosa.