Democrazia, diritti e autocrazia: cosa resta della libertà?

20.06.2025

Quando votare non basta: tra democrazia elettorale, diritti liberali e nuove autocrazie

Introduzione

In un tempo in cui si vota spesso ma si è liberi sempre meno, vale la pena chiedersi: la democrazia coincide ancora con la sola partecipazione elettorale?

La risposta, per chi studia il diritto pubblico e i diritti fondamentali, è negativa. Una democrazia elettorale, fondata su meccanismi di voto regolare e sulla legittimazione periodica del potere, non coincide necessariamente con una democrazia liberale, cioè con un sistema in cui sono garantiti lo Stato di diritto, il pluralismo, il principio di separazione dei poteri e la tutela effettiva delle libertà individuali.

L'apparente ossimoro di "autocrazie elettive" non è più una provocazione accademica, ma una realtà che si consolida in diversi contesti. In alcuni Stati si vota liberamente, ma si governa limitando l'indipendenza della magistratura, colpendo il dissenso, reprimendo la libertà di associazione o discriminando chi non appartiene alla maggioranza dominante.

Due casi, diversi ma emblematici, pongono interrogativi importanti: da un lato, Israele, con il suo sistema elettorale stabile ma sempre più polarizzato sul piano dei diritti e dei poteri di controllo; dall'altro, gli Stati Uniti, dove molti studenti e intellettuali naturalizzati iniziano a temere di esprimere opinioni legittime – ad esempio, su conflitti internazionali – per il rischio di ritorsioni indirette, come il ritiro della green card o l'esclusione da contesti accademici e sociali.

Ciò che emerge è un nodo cruciale: senza una cultura e una struttura giuridica che proteggano la libertà anche quando è scomoda, la democrazia si svuota, fino a diventare una semplice procedura, priva di anima costituzionale.

2. Democrazia elettorale vs. democrazia liberale

Il dibattito tra democrazia elettorale e democrazia liberale non è solo teorico, ma giuridicamente e politicamente decisivo. Nel primo modello, la legittimità del potere deriva unicamente dal voto popolare: ciò che conta è che il governo sia scelto attraverso elezioni periodiche, libere e competitive. Il secondo modello, più articolato, richiede anche il rispetto di una architettura costituzionale fondata sui diritti fondamentali, sulla separazione dei poteri, sulla libertà di stampa e sull'indipendenza della magistratura.

La letteratura costituzionalista internazionale distingue chiaramente tra le due forme. La democrazia liberale è una democrazia con freni e contrappesi (checks and balances), con diritti che non possono essere compressi nemmeno dalla maggioranza, e con istituzioni di garanzia autonome dal potere esecutivo.

Il caso di Israele rappresenta oggi un banco di prova complesso. Il sistema è elettoralmente democratico: si vota con regolarità, con soglie basse di rappresentanza, e con un pluralismo partitico intenso. Tuttavia, si osservano da anni derive illiberali, tra cui:

  • la compressione dell'autonomia della Corte Suprema, oggetto di proposte di riforma che ne limiterebbero la funzione di bilanciamento e controllo di legalità;
  • il ricorso estensivo a norme d'emergenza e leggi ad personam, che piegano le garanzie generali a fini politici immediati;
  • l'approvazione di leggi discriminatorie, come quella che definisce Israele "Stato-nazione del popolo ebraico", con effetti escludenti verso le minoranze non ebraiche.

Tutto ciò produce una distorsione sistemica: il processo elettorale resta formalmente intatto, ma i diritti e le istituzioni che dovrebbero limitare il potere maggioritario vengono delegittimati. La democrazia, pur essendo votata, perde la sua dimensione costituzionale.

Come ha scritto Giovanni Sartori, «una democrazia senza diritti è una democrazia dimezzata». O, per usare un'espressione più dura ma realistica: è una legittimazione del potere senza limiti giuridici.

3. L'ombra dell'autocrazia: quando lo Stato punisce l'opinione

Uno degli indicatori più chiari del passaggio da un sistema liberale a uno autoritario è la trasformazione del dissenso in minaccia. Quando esprimere un'opinione politica legittima diventa un rischio per il proprio status giuridico o la propria posizione sociale, ci si allontana dal modello costituzionale dello Stato di diritto per entrare in uno spazio grigio, dove il potere esercita una forma di coercizione indiretta, formalmente legale ma sostanzialmente repressiva.

Negli Stati Uniti, Paese che costituzionalmente tutela la libertà di espressione attraverso il First Amendment, si osserva un fenomeno inquietante: studenti, docenti, ricercatori e attivisti naturalizzati (ossia nati altrove ma cittadini americani per naturalizzazione) segnalano timori crescenti di conseguenze personali e giuridiche legate alla libera espressione di opinioni, soprattutto se divergenti dalla linea istituzionale o dominante su temi internazionali sensibili.

Le preoccupazioni si articolano su più livelli:

  • il rischio di revoca della green card o ostacoli alla cittadinanza per chi non è ancora naturalizzato;
  • l'esclusione accademica o lavorativa in contesti universitari dove le posizioni critiche vengono interpretate come "anti-americane";
  • il monitoraggio dei contenuti online e il ricorso a strumenti amministrativi per limitare la partecipazione di chi manifesta dissenso.

Il problema non è solo giuridico, ma culturale e sistemico: si crea una distinzione implicita tra chi è "veramente americano" e chi, pur essendo cittadino, viene percepito come provvisoriamente integrato e quindi ricattabile. Questo genera una compressione della libertà di espressione di soggetti formalmente uguali davanti alla legge, ma sostanzialmente vulnerabili.

Tutto ciò contraddice la logica costituzionale di uno Stato liberale: il diritto al dissenso non può dipendere dalla storia personale, dall'origine geografica o dal grado di conformità ideologica. Una libertà condizionata dalla cittadinanza di sangue è già una forma di disuguaglianza mascherata.

In questo quadro, lo strumento repressivo non è il carcere, ma la paura amministrativa e reputazionale. È una forma di autocrazia soft, in cui si vota, si parla, si scrive, ma a proprio rischio.

4. Il paradosso della libertà condizionata alla cittadinanza "vera"

Nel cuore delle democrazie costituzionali risiede un principio chiave: tutti i cittadini, indipendentemente dall'origine, godono degli stessi diritti. Quando però la libertà di parola, di opinione o di critica diventa, in pratica, più rischiosa per alcuni che per altri, quel principio si indebolisce.

Si assiste così a una frattura interna al concetto di cittadinanza: da un lato c'è il cittadino "originario", nativo e culturalmente dominante; dall'altro, il cittadino "naturalizzato", formalmente incluso ma sostanzialmente condizionato, spesso tenuto sotto osservazione, tacitamente invitato alla prudenza, alla cautela, alla neutralità.

Questa gerarchia non è scritta nei testi normativi, ma agisce attraverso prassi, esclusioni silenziose, minacce latenti. La libertà diventa un privilegio protetto solo per chi è percepito come legittimamente americano, legittimamente europeo, legittimamente dentro.

La cittadinanza, da status egualitario, si trasforma in campo di tensione tra diritto formale e appartenenza percepita. Il soggetto che si espone, se "non abbastanza nazionale", rischia di veder messa in discussione la sua stessa appartenenza: la sua identità diventa sospetta, e con essa la sua legittimità a parlare.

Questo paradosso è l'essenza della democrazia illiberale: dove si vota, ma non si osa. Dove si accetta la pluralità solo se non disturba l'equilibrio apparente. Dove la libertà cede il passo alla lealtà come criterio di cittadinanza.

Il diritto costituzionale dovrebbe reagire a queste distorsioni, riaffermando che la libertà non è funzione della conformità, e che la critica, anche aspra, anche minoritaria, è un bene costituzionale da tutelare – non una minaccia da contenere.

5. Conclusione: senza diritti, la democrazia è una scatola vuota

Il voto è un pilastro della democrazia, ma non ne è il fondamento esclusivo. Una democrazia che rinuncia alla tutela effettiva dei diritti, che reprime il dissenso, che discrimina in base all'origine o all'appartenenza percepita, smarrisce la sua natura costituzionale e si trasforma in procedura senza garanzie.

Nel mondo contemporaneo, segnato da crisi complesse e polarizzazioni sempre più marcate, la deriva verso forme di autocrazia mascherata può assumere contorni perfettamente compatibili con l'apparenza democratica: si vota, ma non si può criticare; si parla, ma solo entro i confini della retorica dominante; si appartiene, ma solo se si dimostra compatibilità con l'identità collettiva definita da chi governa.

La costituzionalizzazione della democrazia – come struttura fondata su diritti inviolabili, legalità, giustizia e uguaglianza sostanziale – è ciò che distingue uno Stato libero da una democrazia simulata.

Quando le istituzioni diventano sorde al dissenso e punitive verso chi esercita libertà fondamentali, anche se formalmente cittadino, la democrazia si svuota, lasciando solo una scatola elettorale priva di contenuto giuridico e umano.

Per questo oggi, più che mai, è necessario difendere non solo il diritto al voto, ma il diritto di essere diversi, critici, minoranza, eppure pienamente parte della comunità politica.