COP30: la svolta necessaria. Perché le popolazioni indigene devono entrare nei negoziati sul clima

17.11.2025

La COP30 di Belém non è una conferenza come le altre. È il primo grande summit climatico che si svolge nel cuore della più vasta foresta tropicale del pianeta, in un contesto in cui la crisi climatica e la crisi dei diritti umani convergono in modo drammatico. Le popolazioni indigene, che vivono quotidianamente le conseguenze dell'alterazione degli ecosistemi, non intendono più limitarsi al ruolo di testimonianza morale: chiedono di diventare parte strutturale della produzione normativa globale sul clima. Questa pretesa non nasce da rivendicazioni romantiche, ma da diritti pienamente riconosciuti nel diritto internazionale e da una consapevolezza politica ormai maturata.

La scelta di Belém, immersa nell'Amazzonia, rende evidente un paradosso che le COP hanno a lungo ignorato: i territori indigeni svolgono un ruolo essenziale nella stabilità climatica globale e custodiscono la maggior parte della biodiversità terrestre, ma i popoli che li abitano continuano a essere relegati ai margini dei processi decisionali. La loro presenza fisica al summit è imponente, mentre la loro presenza formale nei "luoghi in cui si decide" rimane drasticamente insufficiente. Ne deriva un distacco fra narrazione e prassi: si celebra il valore delle comunità indigene, ma si nega loro l'accesso alla fase in cui si redigono testi vincolanti.

Questo squilibrio è emerso in modo plastico nelle tensioni che si sono sviluppate fuori dal centro congressi, quando gruppi indigeni hanno protestato contro la limitazione dei loro accrediti, denunciando l'ennesima esclusione dai tavoli negoziali. La gestione securitaria di tali proteste ha mostrato le contraddizioni profonde di un sistema multilaterale che proclama il dialogo con le comunità tradizionali, ma fatica a riconoscerne il ruolo politico. Se gli spazi di ascolto rimangono confinati a eventi collaterali, la partecipazione resta simbolica e priva di effetti reali sulla governance climatica.

Eppure il quadro giuridico è chiarissimo. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli, il principio del consenso libero, previo e informato (FPIC), la tutela dei territori ancestrali, la garanzia di partecipazione attiva alle decisioni pubbliche: sono tutti elementi già codificati nel diritto internazionale dei diritti umani. Il FPIC, in particolare, non è un atto di mera consultazione, ma un processo articolato che richiede tempi congrui, comprensione piena delle misure proposte, possibilità di incidere realmente sul contenuto delle decisioni e, soprattutto, libertà di dissentire. Nelle conferenze sul clima, però, questi principi sono stati finora applicati con modalità riduttive, spesso limitate a momenti di confronto formale privi di incidenza sui testi finali.

Le popolazioni indigene arrivano a COP30 con un'agenda politica raffinata e non improvvisata. Negli ultimi anni hanno consolidato reti regionali e continentali, elaborando dichiarazioni comuni che individuano priorità precise: riconoscimento del ruolo degli indigeni nella governance ambientale; garanzia della titolarità collettiva delle terre; esclusione delle attività estrattive nelle aree con presenza ancestrale; partecipazione diretta alla gestione dei fondi per l'adattamento e per le perdite e i danni; supervisione autonoma dei progetti climatici nei loro territori. Questo insieme di richieste compone un vero e proprio manifesto per una "giustizia climatica basata sui diritti".

Parallelamente, la COP30 si svolge in un contesto geopolitico complesso. L'obiettivo dei 1,5 °C è sempre più lontano, e gli scienziati avvertono che anche un superamento temporaneo potrebbe provocare effetti irreversibili sugli ecosistemi amazzonici. Le grandi potenze economiche, pur consapevoli della gravità della situazione, continuano a mantenere posizioni difensive sui temi più sensibili: la riduzione dei combustibili fossili, il finanziamento dell'adattamento, la riforma della finanza climatica e l'introduzione di meccanismi di compensazione più trasparenti. In questo quadro, l'apporto delle comunità indigene non viene considerato un elemento imprescindibile, ma un capitolo "secondario" da gestire senza introdurre vincoli eccessivi ai governi.

Il tema della finanza climatica è, sotto questo profilo, cruciale. I popoli indigeni denunciano da tempo che buona parte dei fondi destinati alla protezione della biodiversità o alla mitigazione non giunge realmente alle comunità che vivono nei territori che assorbono più CO₂. Chiedono quindi che i flussi finanziari siano diretti, non mediati da apparati burocratici statali o da soggetti privati, e che le comunità possano partecipare alla definizione dei criteri di distribuzione e delle modalità di utilizzo. Senza questa garanzia, il rischio è che le risorse destinate alla tutela ambientale alimentino sistemi già disfunzionali, lasciando irrisolti gli squilibri di potere.

Un altro nodo riguarda i mercati del carbonio. Alcuni progetti nati per compensare le emissioni delle industrie dei Paesi ad alto reddito hanno comportato restrizioni sull'uso tradizionale dei territori da parte delle popolazioni indigene, riducendo l'accesso a fiumi, foreste e risorse vitali. Le comunità coinvolte chiedono che ogni progetto sia co-progettato con loro e che l'integrità culturale e territoriale sia considerata un parametro vincolante. In altre parole, la tutela climatica non può diventare una nuova forma di espropriazione mascherata da iniziativa "verde".

Da un punto di vista costituzionale, l'Italia non è estranea a questa discussione. La tutela dell'ambiente e degli ecosistemi, l'obbligo di conformarsi al diritto internazionale, la necessità di rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena partecipazione dei soggetti più vulnerabili: tutti questi principi concorrono a delineare un modello di cooperazione globale che non può prescindere dal riconoscimento dei diritti collettivi delle comunità indigene. Una partecipazione che non sia solo testimonianza, ma capacità effettiva di incidere sul contenuto degli accordi.

La COP30, dunque, rappresenta un crocevia. Se il sistema delle Nazioni Unite intende mantenere credibilità, deve accettare che la legittimità democratica degli accordi dipende anche dalla rappresentanza di chi vive nei territori più fragili e più preziosi del pianeta. Continuare a escludere i popoli indigeni dalle decisioni, proprio mentre si riconosce retoricamente il loro ruolo di custodi delle foreste, significa perpetuare un modello di governance climatica ingiusto e inefficace. Al contrario, includerli pienamente comporta un cambio di paradigma: la transizione ecologica non si costruisce solo con tecnologie e finanza, ma anche con il riconoscimento sostanziale dei diritti e delle conoscenze di chi, da secoli, custodisce gli equilibri ambientali che oggi il mondo intero tenta disperatamente di salvare.