Il diritto di esistere: il Budapest Pride 2025 e la sfida allo Stato illiberale

Nel cuore dell'Unione Europea, dove i Trattati proclamano solennemente la dignità umana, l'uguaglianza e i diritti delle minoranze come valori fondanti, si è celebrata oggi, 28 giugno 2025, una delle manifestazioni civili più controverse e, al contempo, più cariche di significato degli ultimi anni: il Budapest Pride. Un corteo che, a dispetto del divieto imposto dal governo ungherese, ha visto la partecipazione di decine di migliaia di persone – tra cui oltre settanta europarlamentari – in un gesto collettivo di disobbedienza civile. Non una festa, ma un atto di resistenza democratica. Non un semplice diritto di riunione, ma l'affermazione pubblica di un'identità collettiva troppo a lungo marginalizzata.
Il divieto imposto dalle autorità centrali ungheresi si fonda su una normativa già nota alla Corte di Giustizia dell'UE e alla Corte europea dei diritti dell'uomo: si tratta della legislazione sulla cosiddetta "propaganda omosessuale", che vieta ogni rappresentazione positiva delle identità LGBTQ+ in presenza di minori e, nella prassi, finisce per colpire qualunque visibilità pubblica. Il Budapest Pride è stato vietato formalmente per "ragioni di sicurezza" e "protezione dei minori", ma nella sostanza la ratio sottesa è chiaramente discriminatoria. Il sindaco della capitale, Gergely Karácsony, ha tuttavia qualificato l'evento come manifestazione municipale, disconoscendo la legittimità del divieto e appellandosi a una concezione sostanziale del diritto di manifestare: quello cioè che tutela la libertà di espressione e di riunione come strumenti di affermazione democratica, anche (e soprattutto) quando il contenuto del messaggio è inviso al potere.
La risposta della società civile è stata potente e ordinata. La marcia si è svolta pacificamente, tra le strette maglie della sorveglianza statale e il rischio concreto di sanzioni amministrative o penali. La presenza di europarlamentari, attivisti internazionali e osservatori giuridici ha avuto il duplice effetto di proteggere fisicamente i manifestanti e di trasformare il corteo in un banco di prova per l'intera Unione Europea. È qui che si gioca, infatti, la credibilità dei Trattati: l'articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea afferma che l'UE si fonda sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti delle minoranze. Ma tali enunciazioni, se non seguite da meccanismi effettivi di tutela, rischiano di ridursi a formule di stile. La procedura ex art. 7 TUE, pur prevista per le violazioni gravi e persistenti dello Stato di diritto, si è dimostrata spesso lenta e inefficace. La condizionalità nell'erogazione dei fondi europei, prevista dai recenti regolamenti, appare oggi uno strumento più concreto, ma non risolutivo. La giustizia costituzionale europea ha dunque bisogno di nuovi strumenti e di un rinnovato coraggio istituzionale.
E mentre guardiamo all'Ungheria con giusta preoccupazione, non possiamo esimerci da uno sguardo autocritico verso la situazione italiana. L'Italia non vieta formalmente i Pride, ma vive una condizione di arretratezza normativa e culturale che incide profondamente sulla qualità della vita delle persone LGBTQ+. Non esiste ancora nel nostro ordinamento una legge organica contro l'omotransfobia: il disegno di legge Zan, che avrebbe introdotto tutele penali e misure educative, è stato bloccato nel 2021 in Senato con una votazione segreta, che ha mostrato l'ipocrisia e la fragilità del nostro Parlamento dinanzi a un tema di civiltà. Sul piano delle unioni affettive, il matrimonio egualitario non è previsto; le adozioni omogenitoriali non trovano disciplina esplicita e sono lasciate all'alea dell'interpretazione giudiziaria. Le persone transgender incontrano ancora ostacoli burocratici e culturali enormi nel percorso di transizione. E sul fronte della salute mentale, del lavoro e della sicurezza, i dati raccolti da associazioni come Arcigay, GLIC, MIT e Amnesty evidenziano livelli ancora elevati di discriminazione, esclusione e violenza.
Tutto ciò avviene in un Paese che si proclama civile, ma in cui l'identità LGBTQ+ è ancora percepita da ampie fasce della popolazione come qualcosa di "altro", se non di "ideologico". In questo senso, il Pride non è soltanto un momento di visibilità, ma una rivendicazione giuridica di esistenza. È l'affermazione, nello spazio pubblico, di una soggettività che chiede riconoscimento e pari dignità. Non c'è libertà costituzionale senza uguaglianza sostanziale. E non vi è uguaglianza sostanziale finché le condizioni materiali di vita delle persone LGBTQ+ restano segnate da esclusione, silenzi e marginalità.
Il corteo di Budapest, dunque, ci interroga. Non solo su che Europa vogliamo essere, ma anche su che Italia siamo diventati. In un tempo in cui i diritti fondamentali vengono nuovamente rimessi in discussione, occorre ribadire che la libertà di essere se stessi – e di farlo senza paura – è la più alta espressione del costituzionalismo democratico. E ogni volta che viene ostacolata, anche con mezzi solo formalmente legittimi, siamo chiamati a reagire. Perché il diritto di esistere, quando è negato ad alcuni, finisce per essere indebolito per tutti.
Per approfondimenti:
- Sentenze della Corte di Giustizia dell'UE in materia LGBTQ+
- Report di Amnesty International Italia